Era il 25 aprile 1926 quando l’opera incompiuta di Puccini, la Turandot, raggiunse l’acme dell’inevitabile pathos della prima rappresentazione. Toscanini diresse l’opera proprio fin là dove Puccini si era arreso alla morte. Fu fedele agli ultimi appunti del maestro, incapace di mettere in musica la metamorfosi della principessa di ghiaccio a donna innamorata: «Qui termina la rappresentazione perché a questo punto il Maestro è morto.»
Il gesto plateale di Toscanini in occasione della prima non risolse comunque la questione di un finale convincente da dare all’opera. Dopo il finale composto da Alfano, recentemente, nel 2001, Luciano Berio ha proposto una nuova soluzione, sempre sulla base degli appunti del Maestro.
Le lapidarie parole di Toscanini sembrano però contenere un riferimento più profondo e sinistro.
Con la morte di Liù, schiava innamorata di Calaf, tipica eroina pucciniana, l’opera non va avanti. Sembra arrestarsi, incapace di trovare una giusta soluzione alla profonda e intima esigenza di metamorfosi, richiesta dalla natura stessa delle cose.
Come non vedere nella morte della dolce e coraggiosa Liù, l’inevitabile metafora dell’epilogo dell’opera lirica e del melodramma italiano?
Sono gli anni dell’ascesa del cinema e la lirica si avvia a diventare un’arte per pochi intenditori non più una forma d’arte vitale rivolta a un pubblico, anche popolare, che vi si riconosce.
Potente e misterioso l’incipit di Turandot annuncia il dramma. L’opera proietta lo spettatore nel “tempo delle fiabe” in un alternarsi di eccitazione corale e di mestizia da marcia funebre. L’apparizione della crudele principessa votata alla vendetta dà inizio al duello tra le due granitiche personalità. Calaf e Turandot si avvicinano in una danza di amore e morte che con la fine dell’opera si conclude con il gesto di accettazione silenziosa dell’amore da parte della principessa.
Turandot si arrende all’Amore!
E così la dolce Liù, con la sua morte sacrificale, sembra passare il testimone alla femminilità moderna e complessa di Turandot. Lei che disgelandosi arriva alla coscienza di sé e del suo amore, in un processo psicoanalitico e in un cambio poetico che solo la morte ante tempo dell’autore ha esaurito prematuramente.
Turandot contiene una nuova apertura da parte di Puccini alle avanguardie continentali capace di rinnovare il melodramma italiano.
Il soggetto di Turonadot trae origine da una fiaba persiana ripresa da Carlo Gozzi nelle sue Fiabe Teatrali. Queste sono la risposta fantastica e polemica alla Riforma del teatro che in quegli stessi anni era portata avanti da Carlo Goldoni che intendeva portare sulle scene la vita reale in tutti i suoi aspetti.
Già nel 1804 Schiller rivaluta in chiave romantica l’orientalismo fiabesco e gli artifici della Commedia dell’Arte facendone un adattamento rappresentato a Weimar, quando il teatro era diretto da Goethe, con musica di Karl Maria von Weber.
La rivisitazione in chiave antiborghese delle fiabe teatrali saranno poi riprese dalle avanguardie storiche dei primi decenni del ‘900 come Prokov’ev, Brecht e Yevgenij Vachgantov e già nel 1917 Ferruccio Busoni scriverà la sua Turandot.
L’opera incompiuta di Puccini consente a Zeffirelli di realizzare degli allestimenti maestosi e opulenti, in grado di assecondare la sua fervida immaginazione.
Affronterà la difficile opera negli anni della maturità. Dopo il 1983 al Teatro alla Scala seguono altri tre allestimenti al MET, all’Arena di Verona e per finire nel 2011 alla Royal Opera House di Muscat.
La fonte della sua ispirazione? Un centro tavola di cristallo del ‘700 in stile orientale, non propriamente una cineseria, bensì una turcheria.